The Generous Space

 

Wessel Huisman, Dieren, 2011

 

Introduzione

Nel corso degli anni ho osservato che nella storia della pittura esistono, nell’opera di diversi artisti, alcuni momenti di speciale spazialità o profondità.
Sfortunatamente non è possibile definire queste modalità di rappresentazione con un solo concetto. Mi piace descrivere questo spazio mentale come uno spazio pratico, ingegnoso, ipnotico, sorprendentemente convincente, a tratti giocoso e a volte austero. È una spazialità, a volte meglio definita come profondità, che trova naturalmente la sua forma e misura attraverso la pittura; sembra essere la risultanza di considerazioni composizionali ma trascende in effetto e intensità il significato dell’immagine. Nonostante questa caratterizzazione assuma dei connotati letterari, è questa una qualità spesso gravata da una precisione matematica.
È spazio che non può sussistere al di fuori del quadro, è una profondità che non può concretizzarsi senza l’intervento cosciente del creatore tesa quasi a rivelare la disposizione mentale dell’artista.
È interessante notare che questo fenomeno non è cronologicamente subordinato a nessun periodo convenzionale della storia dell’arte.

Questo testo è il risultato di un lungo e ininterrotto processo di osservazione, interpretazione, verifica e comparazione.
L’intervallo che intercorre tra la prima e la seconda analisi di un dipinto non è mai lo stesso, tra un’osservazione e l’altra possono trascorrere un paio di minuti o un paio di mesi o addirittura dieci anni.
Le mie constatazioni hanno un che di paradossale. Non essendo in grado di apportare valide prove a corroborare le mie ipotesi, non possono essere certo considerate come conclusioni scientifiche. Questo non solo perché non è per me possibile compiere una ricerca più approfondita relativa al contesto in cui sussistono questi fenomeni, ma anche perché il mero linguaggio non è in grado di descrivere l’essenza del fenomeno di cui sto discutendo.
Il puro e semplice atto dell’osservare fa parte della mia professione nella stessa misura in cui uno pneumologo usa i propri occhi per studiare una radiografia.
Nel mio campo di studio questo implica distanziarsi da quello che è il mio gusto personale. Le mie considerazioni sono soggettive, nel senso che sono proprio io a riflettere e a osservare.
A mio giudizio le mie constatazioni non sono opinabili; quello che descrivo avviene e prende forma nella realtà.
Non meno importate è affermare che il mio pensiero riguardo a questo fenomeno viene nutrito quotidianamente da nuove concrete esperienze plasmate nel mio atelier. Visto che le fonti bibliografiche sono accessibili al lettore, ciò di cui discuto potrà essere facilmente verificato. Come aiuto al lettore ho inserito alcune immagini nell’allegato.
Prima di addentrarmi nello spazio, desidero tuttavia chiarire il mio pensiero, in un paio di righe.

Dipingere

La pittura è un ricco, antico linguaggio pregno di significato, è di fatto il linguaggio più antico di cui l’umanità dispone. Nessun altro mezzo si rivela essere così polifunzionale su una superficie piana; la pittura è in grado, più di qualsiasi altra espressione figurativa, contemporaneamente di rivelare e di occultare nonché di determinare la relazione con la materia. Le capacità di espressione della vernice sono praticamente infinite.
Paragoniamo Van Gogh con Mondriaan o Willink, Dalì con Pollock o De Chirico; Rothko con Lüpertz o Tuijmans. I dipinti pongono l’osservatore faccia a faccia con le illusioni e contemporaneamente con la realtà della vernice. Imparare a dipingere è complesso almeno quanto imparare a suonare il violino o conseguire una specializzazione medica.
Per padroneggiare gli aspetti materiali, imparare a osservare e prendere coscienza di cosa vede realmente il pittore mentre guarda il proprio lavoro, servono parecchi anni. È per me indispensabile approfondire il modo in cui il linguaggio pittorico si è sviluppato in modo da prendere coscienza di quello che io faccio. Voglio sapere come confrontarmi con gli altri pittori, quale ruolo gioca per me il lavoro dei miei colleghi del passato.

Un metodo di lavoro unico

Un personale e unico metodo di lavoro non rappresenta in sé un obbiettivo ma è la conseguenza di qualcos’altro.
Nel 1989 mi confrontai con un problema che avevo lasciato a lungo in sordina. In retrospettiva posso ora affermare che era proprio la superficie del dipinto a generare questo conflitto interiore. Negli anni precedenti avevo disegnato a lungo. Anche quando usavo la vernice lo facevo seguendo la medesima tecnica del disegno. Raffiguravo grandi costruzioni, monumentali sale di stazioni e case perforate da proiettili. Per quanto il chiaroscuro rappresentasse un importante strumento di supporto, l’elaborazione dello spazio iniziò a richiedere un’attenzione sempre più costante. Nonostante conoscessi le regole del disegno prospettico, mi accorgevo strada facendo che questo mezzo non soddisfaceva più il mio desiderio di togliere le briglie e di liberare lo “spazio". Non riuscivo ad ingrandire lo spazio della superficie su cui dipingevo.
Al contrario, inciampavo sempre in qualcosa di impenetrabile, quasi letteralmente in uno scudo.
Per un determinato periodo ho usato questa nozione come punto di partenza sia per i miei lavori bidimensionali così come quelli tridimensionali, per poi infine accorgermi che il metodo di lavoro che avevo sviluppato fin dai tempi dell’Accademia era diventato inadeguato, insufficiente.

E così tornai alla mia più grande fascinazione, il chiaroscuro, la luminosità. Mi imposi un semplice compito: come posso materializzare la luce? Di fatto, ciò implicava una ben precisa domanda: cosa è per me l’essenza della pittura? Cosa vuol dire apporre strati di vernice su una superficie piana?
Ancora adesso mi stupisco di come usando il mio pennello in modi diversi una piccola macchia riesca a trasformarsi in una sagoma che cammina o una finestra o un cornicione, mentre la stessa vernice usata in modo diverso prenda i contorni di un quadratino o di un rettangolino “astratto".
Entrambe le macchie di vernice possiedono una propria espressione e significato, delimitano e dilatano la superficie ma regalandole spazialità e misura.

Un dipinto

Oggigiorno è di moda asserire che l’arte visiva non esiste solo per appagare gli animi; che l’arte figurativa deve trascendere la semplice creazione di un’esperienza a livello estetico basata implicitamente sulle cosiddette “tecniche tradizionali”. Ma che senso ha dunque cacciare un demone che noi stessi abbiamo creato?
La cosa peggiore è per me la velata suggestione che fino ad ora l’arte visiva sia stata in grado solo di offrire un godimento puramente estetico; ma questo è un punto che affronterò in seguito.

Esistono diverse maniere di avvicinarsi a un dipinto. Mi limito per ora ad enumerare gli aspetti che ritengo importanti per l’argomento che desidero ora trattare.
Un dipinto è composto da una base su cui viene applicata la vernice. L’immagine che si vede è soggetta a regole grammaticali che determinano la comprensione di ciò che viene percepito. Un dipinto può essere figurativo o astratto. Nel primo caso è possibile ridurre forme e immagini a cose riconoscibili, nel secondo caso questo è praticamente quasi impossibile.
Nel primo caso l’immagine si riferisce involontariamente alla realtà tridimensionale e possibilmente ad altri dipinti.
Nel secondo caso non sussiste alcuna diretta corrispondenza tra immagine e realtà visibile o è limitata solo a una similitudine con altri dipinti astrattati.
Considerato che tutti noi non siamo certamente una pagina intonsa, è possibile che un dipinto possa, consciamente o non, alludere ad altre immagini, rievocare ricordi facendo scaturire associazioni riattivando memorie perdute. Parallelamente un quadro è anche qualcosa di tangibile, un oggetto reale, con misure concrete e di esplicita espressione materiale.
Nel corso degli anni ho notato che un dipinto è capace di toccarci in molteplici modi, molto di più di quello potremmo aspettarci basandoci meramente sulla sola immagine in sé. L’osservazione e l’esperienza sensoriale coinvolgono l’apporto della nostra storia personale. È proprio per questo che il ricordo si rivela essere cruciale per l’osservazione, così come è essenziale è custodire la memoria dei nostri riferimenti personali.



Lo spazio sulla superficie piana, spazio illusorio contro spazio di rappresentazione.

Circa 18 anni, durante la fase in cui tornai a quelle che amo definire nozioni di luce, incontrai un altro modo di suggerire lo spazio già esplorato in passato dai cubisti all’inizio del ventesimo secolo e da artisti come Mondriaan e Van der Leck. Contro l’illusione dello spazio può essere evocato dall’applicazione delle leggi della prospettiva, sviluppai una nozione che descrivo come spazio di rappresentazione. Bart van der Leck parla di “spazialità piana” cioè di uno spazio che prende forma nelle nostre menti.

Nel 1990 vidi per la prima volta le pitture funerarie etrusche di Villa Giulia a Roma. Una scoperta cruciale. La chiarezza, lo spazio e la misura umana mi colpirono per il loro essere eterne, senza tempo. Per la prima volta mi trovai faccia a faccia con una spazialità astratta inserita armonicamente e in modo del tutto naturale in un dipinto figurativo. Fu per me un sollievo osservare come elementi raffigurativi venissero affiancati armoniosamente e in modo del tutto organico da elementi decorativi.
O meglio, che la distinzione tra decorativo, con schemi di colore ritmici à la Gerhard Richter o Peter Struyken, e figurativo venisse completamente annullata. Splendidi esempi sono la tomba dei Tori o la tomba dei Baroni.
Sebbene gli Egizi siano riusciti a mescolare magistralmente superficie e rappresentazione spesso anche unitamente a ideogrammi, è solo nelle pitture monumentali etrusche del periodo tra il sesto e quarto secolo a.C. che il muro non è solo la superficie del dipinto ma è simultaneamente anche lo spazio immaginario dove ha luogo la scena.

Spazio di rappresentazione

Lo spazio può essere percepito come una forma di illusione dipinta come, ad esempio, una camera o una strada.
Nel caso di un dipinto in cui è presente lo spazio di rappresentazione non importa che un’immagine debba necessariamente rievocare una qualsiasi forma tridimensionale.
I nostri occhi registrano qualcosa nell’immagine che restituisce una sensazione di spazio. Sebbene semplice a parole, è questo un affascinante fenomeno. Apparentemente i nostri occhi sono in grado di percepire lo spazio in un oggetto bidimensionale, anche quando l’immagine in sé stessa non ne provoca la diretta associazione o il conseguente riconoscimento. Ma c’è di più.

Ho già, in precedenza, asserito palesemente che è mia opinione che l’uso della vernice si muove tra due poli; oscillando tra la funzione di semplice strumento al servizio di un dipinto in cui la vernice serve a evocare la forma di un oggetto riconoscibile o come vera e propria espressione materiale indipendente. Naturalmente è possibile pensare diverse possibili combinazioni che si muovono tra astratto e figurativo.
A partire dagli anni ‘90 ho scelto deliberatamente di lavorare con queste due forme.
È per questo che nei miei quadri fanno capolino accenti che niente hanno a che fare con la rappresentazione e che traggono il loro significato dalla posizione della vernice sulla superficie piana. È dunque decisivo stabilire se simili accenti stimolino il movimento attraverso l’immagine rinforzando così lo spazio di rappresentazione. Sprazzi, piani e linee vengono da me mescolati per portare l’immagine in equilibrio.
L’elaborazione di questi accenti si spinge ancora più avanti. A mano a mano ho notato che è per me possibile evocare la forma spaziale degli oggetti e situazioni in vernice solo con l’aiuto di questi accenti; che tutto ha a che fare con l’intrinseca realtà della pittura, della rappresentazione in vernice.
Ho realizzato che il modo in cui pongo questi accenti dipende completamente dalla specifica tela e dallo specifico spazio. Non esiste una ricetta esatta. Suppongo che tante persone che apprezzano il mio lavoro non siano per niente consapevoli dell’esistenza di questi accenti o la considerino come un’imprecisione causata dallo sdrucciolare del pennello, come ciò che si potrebbe definire una licenza poetica. Le mie figure umane vengono spesso associate con i dipinti degli impressionisti. Il tocco leggero, la nota fugace. Niente è meno vero. Questi accenti vengono posti con grande cura e ponderazione proprio perché l’intrinseca consistenza del quadro ne dipende direttamente. In ultima istanza posso a considerare un quadro come completo solo se il rapporto tra movimento e ritmo risulti essere armonioso. Talvolta riesco a spingermi così oltre da contrastare la prospettiva in modo di ottenere la giusta spazialità. È questo in realtà per me un grande mistero!
Come è possibile che macchie che hanno la funzione di disturbare l’illusione riescano a provocare l’esatto effetto opposto? E ancora a dimostrazione che l’effetto del dipingere è subordinato alla propria realtà come dipinto. Quello che succede nell’immagine viene determinato da altre leggi e regole, diverse da cioè che consciamente o inconsciamente viene associato alla realtà tridimensionale Regole che influenzano la percezione della realtà.

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Lo spazio di rappresentazione nel tempo

La storia della pittura dal punto di vista dello spazio di rappresentazione assume un ordine temporale diverso dalla cronologia generalmente accettata al giorno d’oggi.
Partendo da bisonti e cavalli galoppanti raffigurati nei dipinti rupestri, è possibile tracciare il primo punto culminante di questa spazialità nei dipinti etruschi, concentrati soprattutto attorno a Tarquinia. In seguito, bisognerà aspettare il quindicesimo secolo perché i pittori, specialmente nell’Olanda del Sud e in Italia, riprendano a osservare questo spazio luminoso e diffuso e a riprodurlo in immagini. Mi riferisco in particolare all’opera di Jan en Hubert van Eijck, Rogier van der Weiden, Hans Memling, Raffaello, e ancora alle pale d’altare del Perugino, ai pannelli di Carpaccio, ai dipinti di Antonello de Messina, tanto per citare un paio di esempi.
Dopo un lungo iato, i pittori impressionisti ritrovano alla seconda metà del diciannovesimo secolo lo spazio a cui mi riferisco. Sono soprattutto il giovane Pissarro en Sisley ad eccellere nell’evocazione della spazialità astratta in una scena figurativa. Questo vale anche per James Ensor. All’inizio del ventesimo secolo sorgono innumerevoli esperimenti e punti di vista individuali. Non sono i cubisti con la loro ricerca nel rapporto tra bidimensionalità e tridimensionalità e la simultanea coesistenza di diversi aspetti della forma spaziale non direttamente influenzata dal movimento, ma sono soprattutto alcuni artisti appartenenti al costruttivismo e altri legati al movimento olandese De Stijl che riescono con successo a ricreare la spazialità nei loro quadri. Nonostante questa sia un’analisi decisamente semplificata, è questa l’essenza di quanto ho osservato durante i miei anni di osservazione.

Prima di affrontare il modo in cui lo spazio di rappresentazione si manifesta, desidero rendere giustizia ad un numero di casi eccezionali. Cosa dire, ad esempio, delle chiare miniature dell’ottavo e nono secolo (allegato 3,20), le soluzioni individuali degli artisti italiani del tredicesimo e quattordicesimo secolo. La speciale spazialità piana nel lavoro di Giotto come testimoniato negli affreschi della cattedrale di San Francesco di Assisi? È stato Michelangelo ad affermare che come prima cosa dipingere significa risolvere il problema dello spazio su una superficie piana!
Voglio inoltre citare l’universo di Jan Vermeer con le sue ipnotiche composizioni astratte. Canaletto e Bernardo Bellotto sono famosi soprattutto grazie ai loro panorami e vedute di città, ma è proprio nelle loro tele meno spettacolari che lo spazio a cui mi riferisco compare con particolare tracotanza. Nel diciannovesimo secolo troviamo Weissenbruch ad annunciare con alcune tele il futuro Mondriaan. Chi ha sperimentato il suo senso di uso dello spazio, è in grado di riconoscere immediatamente il suo lavoro.
Anche se ritenuto interessante per il suo approccio concettuale il lavoro di Duchamp è per me di grande valore proprio per l’attenzione dedicata all’effetto spaziale, non è affatto una coincidenza che uno dei suoi lavori più interessanti “la grande finestra di vetro” sia composto da forme fluttuanti sospese nello spazio.
Morandi non può non mancare in questa lista e tra i contemporanei vorrei citare Luc Tuijmans.
Rendendomi conto dei limiti geografici del mio orientamento, voglio aggiungere anche alcuni dipinti turchi di anonimo del sedicesimo secolo, visti un paio di anni fa, che presentano grandi somiglianze con Victory Boogie Woogie di Mondriaan. E non vorrei tralasciare Hokusai e le sue 36 vedute del Monte Fuji che regalano un intrigante spazio autonomo alla carta su cui sono stati stampate.

Lo spazio di rappresentazione, una descrizione supplementare

I quadri sopra menzionati durante i tre diversi periodi possono essere suddivisi in due gruppi principali.

Il primo è formato da dipinti caratterizzati da una struttura che sembra essere giocosa e casuale. Tra questi possiamo annoverare i dipinti etruschi funerari della “tomba dei Tori”, della “tomba della Caccia e Pesca” e della “tomba del Barone”, l’opera di Sisley, le prime opere di Pissarro e svariati quadri di Ensor. E inoltre il lavoro di Mondriaan e Van der Leck del periodo 1915-1917, il Grande Vetro e altri tableaux di vetro e non realizzati da Duchamp. Anche se teoricamente Van Doesburg dovrebbe appartenere a questa categoria, lo ritengo troppo opportunista; cambia di stile come farebbe con una giacca … Il suo lavoro mi sembra troppo artefatto e dogmatico. Questo vale anche per molti aspetti anche per Jan Dibbets, che pretende tramite Mondriaan di essere un diretto erede di Saenredam …
Durante gli anni '20 e ‘30 anche Mondriaan non sembra essere completamento libero da preconcetti assoluti; è un sollievo vedere cosa succede alla fine della sua carriera (1940-’44) in quadri come Broadway Boogie Woogie e Victory Boogie Woogie!
Il movimento nei quadri è soprattutto “pulsante”, si muove cioè dal fronte al retro tendendo a rafforzare l’effetto di profondità facendo apparire l’immagine parte di una superficie ancora più estesa.

Il secondo gruppo racchiude quei dipinti in cui è presente una spiccata o addirittura dominante struttura compositiva. Questa struttura fa sì che lo sguardo venga catturato e condotto in direzioni predefinite nello e dallo stesso quadro.
Spesso le linee basilari della composizione delineano e circoscrivono un movimento circolare attorno un centro immaginario. Il movimento si alterna tra il piano anteriore e posteriore. Questo è il risultato di forme o di elementi di immagine che compaiono in piano cioè senza alcuna distorsione prospettica. Nei dipinti del quindicesimo secolo questo effetto viene creato da punti di vista come finestre e porte.
La cosa più importante è che il valore di questi dipinti non viene determinato dalla rappresentazione figurativa o dall’emozione che scatenano nello spettatore ma dalla qualità mentale o meditativa che trasmettono. L’armonia portata avanti a un livello di perfezione che esiste nella realtà del dipinto come oggetto, come superficie coperta da vernice strutturata.
In questi dipinti spazio illusorio e spazio di rappresentazione coesistono e si fondono. Parlo in particolare dell’opera di Memling, Carpaccio, Antonello da Messina, il primo Raffaello e Vermeer. Valutazione decisa della misura, colore, luminosità e posizionamento dei piani sono le peculiarità che meglio caratterizzano i ritratti del quindicesimo secolo.

Una spiegazione?

Com’è possibile che solamente durante un paio di periodi storici gli artisti, in generale, siano stati in grado di rappresentare lo spazio su una superficie in modo tale da trasmettere il messaggio mentale, o meglio la suggestione, che uno spazio aperto e non delimitato esista veramente e che un simile spazio creato da un artista individuale superi di gran lunga la rappresentazione figurativa? È lecito ipotizzare che questo assunto ci racconti qualcosa sulla mentalità dell’epoca, sulla coscienza collettiva, sul modo in cui vivevano questi individui perfettamente consapevoli della propria esistenza? La risposta è che non è possibile creare questo tipo di spazio a meno di non rappresentarlo intrinsecamente, interiorizzarlo; quando compare, lo spazio deve essere perlomeno riconosciuto per decidere di lasciare il dipinto nello stadio in cui si trova.
È comunque sorprendente, sia nel quindicesimo così come nel diciannovesimo secolo, assistere al rivivere di un orientamento verso la realtà in cui l’accento si posa sulla ricerca empirica. L’osservazione è cruciale.

Le seguenti ipotesi servono come ulteriore materia di ricerca, ma non posso fare a meno di sottoporle al lettore come valide opzioni da ponderare.

  1. Lo sviluppo dell’arte pittorica (o meglio, la creazione di immagini tridimensionali/immagini su una superficie piana) non è lineare, non nel senso di partire da una fase primitiva fino ad una grandemente civilizzato, da 0 fino a un numero massimo.
  2. I periodi dell’arte pittorica sopracitati coincidono con nuove idee rivoluzionarie nel campo della nascente libertà e si sposano con una nuova primavera del pensiero (a cui seguono immediatamente, estate, autunno e inverno!). Il paragone tra il sedicesimo e il ventesimo secolo è inevitabile!
  3. A periodi smaglianti sussegue un regresso causato dall’uso monomane delle conquiste del passato. Si può parlare di un’estrema razionalizzazione di queste conquiste. L’attuale approccio concettuale nell’arte esercitato da molti che non possiedono un sufficiente bagaglio culturale e adeguata conoscenza storica, è significativo per la corruzione di nozioni originalmente preziose. L’attuale discorso sulle arti visive non è incentrato, o lo è solo marginalmente, sulla realtà; sembra non sussistere su esperienze reali. Si battaglia solo in merito a opinioni relative alla realtà. Oggi si afferma una cosa, domani un’altra. Si apprende la realtà solo attraverso la teoria che la riguarda, faccia a faccia con la realtà si è impotenti.

Lo spazio generoso

“… Questo mi fa pensare a Mississippi Gene; e mentre il fiume continua a scorrere sotto le stelle dal cuore dell’America, compresi improvvisamente con assoluta certezza che tutto quello che ho imparato e avrei imparato era Uno”. 1
1 Jack Kerouac, On the road, Amsterdam, 2006, pg. 160

Nel giugno del 2005 visitai la mostra su Memling a Bruges. Da anni nutro una grande ammirazione e sono affascinato da questo pittore fiammingo del quindicesimo secolo. Mentre osservavo i ritratti mi chiesi perché i suoi piccoli pannelli avessero un valore cisi immenso, perché questi piccoli quadri erano e sono così importanti? Questo è quello che scrissi nelle mie annotazioni:
Presenza/realtà. I ritratti, le composizioni sono reali. Ha questo ancora a che fare con il dipingere? Da un canto l’atto del dipingere viene completamente negato/è completamente invisibile. Al contempo è il dipingere sublime che non riguarda sé stesso. Questo all’opposto, ad esempio, di quadri materia dove il lavoro si basa sull’espressione materiale della vernice e altri materiali aggiunti. Il contrasto risulta ancora più evidente quando si vede che i contemporanei e soprattutto i successori hanno copiato il lavoro di Memling. Ecco che saltano all’occhio le imperfezioni, la mancanza di equilibrio. Ecco che il creatore è maldestramente presente.

Con presenza intendo: di fronte. Al di là dell’immaginario primo frontale l’immagine è nella sua modestia fortemente presente. È la purezza della composizione l’elemento più forte nel ritratto di donna, chiamata Sibylla Sambetha dell’ospedale di San Giovanni.) La composizione raggiunge un punto delicato. Non ho l’impressione che esista qualcosa più reale di quanto io stia guardando in questo momento ...”

Ecco il paradosso in piena azione. Essere esposti alla realtà attraverso qualcosa che parla la lingua di una realtà dipinta. Un’illusione che evoca la realtà, più reale di ciò che è reale.

Grazie a questa esperienza sono giunto alla conclusione che, alla fine, è proprio questo che io ricerco nel mio lavoro. Di essere ricordato dell’attimo, dell’ora e del qui. Non desidero più tornare agli istanti in cui ho sperimentato per la prima volta gli aspetti della luce ma voglio trasportare tutto nel presente; il solo momento che conta. È per questo che utilizzo immagini fotografiche di tipo completamente differente come punto di riferimento e spunto per i miei quadri. La specificità storica dell’immagine fotografica che uso come punto di partenza è relativa. Serve ad offrire il contesto per strutturare la vernice. E non ha nessuna importanza se questi punti di partenza siano un interno, una veduta di una città o una scena di strada.
L’unità del mio lavoro, il tratto di unione dei miei dipinti è lo spazio che si sviluppa mentre sto dipingendo. Lo spazio generoso, come l’ho definito. Altruista, accessibile a chi è desideroso di osservarlo. È lo stesso effetto che scaturisce dai dipinti dei due gruppi (vedi sopra). Il dipinto trae l’attenzione dello spettatore verso la propria realtà. La propria realtà, ciò che lo spettatore vuole. Come asserisce Schopenhauer: in quel che vedi, vedi te stesso. Inequivocabilmente, in quel momento, ci troviamo a confronto con noi stessi, con la nostra percezione sensibile.

Gli accenti nei miei dipinti riconducono il lavoro nel qui (nel dipinto) e nell' adesso (lo sguardo dello spettatore). Al contrario di Mondriaan e Van der Leck non mi interessano l’universale o l’assoluto. Quello che mi affascina è la relazione che scaturisce tra un’immagine che ha una valenza storica e temporale e il movimento circolare degli accenti che pronunciano solo la parola “adesso”. Il mio spazio generoso non contiene assolutamente nessuna mistificazione nel senso di significati metaforici, allegorici o altro. Il valore sta nell’atto dell’osservare. E ancora, e osservare un’altra volta e considerare l’immagine come una speciale immagine di vernice, invece di continuare a cercare di riconoscere quello che viene rappresentato o cercare significati occulti e messaggi celati dell’autore. Quello che voglio è rimuovere il continuo conflitto tra immagine e ciò che viene sottointeso.
Il significato di quello che si vede è l’effetto che prende vita durante l’atto di osservare, lo stato mentale in cui la visione ci conduce. In giugno 2005 Memling mi ha detto: e adesso tu!